Milan e Juve cadono in Europa. Le notti di Champions finiscono per ridimensionare le nostre big: il dato fa tremare anche Roberto Mancini.
Quando a Mancini hanno cominciato a parlare di febbre Mondiale, non immaginava che avrebbe dovuto fare i conti con i brividi di paura: dalle “Notti Magiche” a quelle insonni il passo è breve. L’Italia farà da spettatrice ai prossimi Campionati del Mondo, pur essendo Campione d’Europa in carica, e la colpa – sicuramente – non è soltanto di Roberto Mancini. Così come non lo era (soltanto) di Ventura. Alcune responsabilità ce le hanno, forse una buona parte, tant’è che l’ex Torino si è dimesso.
Riversare tutte le colpe su un allenatore, però, è miope e riduttivo. Si vince uniti e si perde anche, insieme. Questo è il denominatore, comune non a caso, che dovrebbe farci riscoprire un calcio diverso: la sostanza – che attualmente manca – al posto della forma. Il tonfo in Champions di Milan e Juventus, se lascia una lezione, dimostra che gli allenatori – tutti – sono parte di un sistema. Quello che ha provato a dire Agnelli, malgrado la piazza bianconera si sia dimostrata furente e stufa: cambiare guida tecnica non serve, perlomeno adesso. I problemi sono altrove.
Parecchia responsabilità ce l’ha la sintesi che aleggia, anche per colpa di una certa informazione, attorno al nostro calcio: in Italia sono tutti fenomeni, tutti fuoriclasse e geni del calcio dopo un paio di partite ben fatte. Prima, forse, non era così: inutile dire che si stava meglio quando si stava peggio. Magari, però, si vedeva meglio quando c’erano meno orpelli e più voglia: se le principali squadre italiane cambiano faccia appena mettono piede in Europa, qualche domanda occorre cominciare a farsela.
Questo è il momento giusto per “rompere” vecchie dinamiche e determinati meccanismi: l’ideale per mettere tutto il sistema in discussione. Dal basso, come si è sempre detto, per poi puntare all’alto. I dirigenti e non solo. Tutta quella piramide di persone, che dovrebbero rispondere a delle competenze, responsabile di aver dormito sugli allori. O peggio: credere di poter vivere di ricordi. Il calcio muta, le prospettive anche: nell’arco di una o due stagioni gli schemi cambiano e si evolvono, così come i ruoli e le esigenze.
Riflettere su questo sembra essere l’unica soluzione, perchè non si può più vivere accontentandosi del passato: l’Italia di oggi non è più quella che ha sbancato Wembley. Gli interpreti sono gli stessi (per alcuni versi) ma è cambiato l’approccio. La vita nei club nostrani è piatta, il mordente viene meno se non capita qualche passo falso (sempre in relazione ai risultati o agli obiettivi mancati).
La programmazione rispetto al lavoro collettivo e individuale resta generica e poche volte va nel particolare. Ecco perché, spesso, in Europa le nostre compagini passeggiano. Il tempo degli alibi è finito, così come quello delle colpe. Vere o presunte. Gli allenatori restano attaccati alle poltrone, al pari del CT, ma serve ugualmente un cambio di passo.
Può arrivare soltanto se viene meno quel concetto di “santificazione” e lode smisurata di determinate realtà – chi più, chi meno – dopo un paio di partite ben giocate tra le mura amiche della Penisola: il calcio italiano deve tornare a occuparsi del particolare con lo sguardo verso il generale. L’avvenire è denso di opportunità, ma per coglierle è necessario innanzitutto togliersi di dosso determinate convinzioni. La prima è quella di essere – ancora – imbattibili.
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