I riferimenti alle squadre e ai campioni del mondo del calcio nelle canzoni che hanno attraversato la storia del Festival di Sanremo
Il Festival di Sanremo ha raccontato l’Italia. I testi delle canzoni, in oltre settant’anni, sono cambiati insieme ai gusti degli italiani, alle passioni, alle evoluzioni della società. Anche se la classica “canzone sanremese” ha avuto a lungo i tratti classici del brano che parla d’amore, dunque apparentemente slegato dai temi più caldi del vivere sociale e civile, le parole raccontano comunque i cambiamenti e il passare delle stagioni.
Al Festival, non c’è dubbio, predominano canzoni sui sentimenti con meno riferimenti espliciti a quel che avviene intorno ai protagonisti. Ma perfino un mondo un po’ lontano dall’universo di senso delle canzoni per Sanremo come il calcio ha fatto capolino sul palco dell’Ariston. Lo dimostra questa breve antologia, senza pretese di esaustività, realizzata attraverso il sito “Le parole di Sanremo”. Antologia che inizia con un dato chiaro: al Festival Milan batte Juventus 2-1.
Sì, perché per due volte nelle canzoni che hanno partecipato al Festival di Sanremo si cita il Milan, una sola la Juve. Entrambi i brani in cui si parla dei rossoneri li ha scritti e cantati Enzo Jannacci, che del Milan era tifoso tanto da aver realizzato “Mi-mi-la-lan”, l’inno ufficiale della squadra nel 1984.
A Sanremo, Jannacci cita il Milan in un momento simbolico di “Se me lo dicevi prima“, 17° ma secondo nella classifica del Premio della Critica nel 1989. Scritta con Maurizio Bassi, è una canzone intensa in cui affronta la difficoltà del chiedere aiuto quando ci si trova in condizioni difficile come la dipendenza dalle droghe. Tunnel da cui si può anche uscire: “Quando vince il Milan / Quando guardi fuori / E sarà ancora bello / Quando guardi il tunnel / Che è ancora lì vicino e non ci credi ancora / Ne sei venuto fuori e non ci credi ancora“.
Nel 1998, Jannacci vinse il Premio Volare per il miglior testo con “Quando un musicista ride“. E’ impossibile non vedere almeno un indiretto riferimento autobiografico nel protagonista che si sfoga così: “Perché mi tratti male / E mi chiami straccione / Ah, forse è per la sciarpa del Milan / Che non fa pendant con la mia faccia marrone“.
Il calcio, nelle canzoni di Sanremo, è in qualche caso usato per colorare il contesto, come uno sfondo presente sulla scena ma non al centro della scena. E’ il caso, evidente, di “Soli al bar” di Aleandro Baldi e Marco Guerzoni, canzone sugli emarginati, gli esclusi di ogni tipo. Persone che restano invisibili, cantano, mentre intorno “c’è un giardino di gente che pensa per sé / A Milano la Juve che fa / La domenica…”.
Due volte compare anche il Napoli. La più recente è datata 2016 in “Vincere l’odio” di Elio e le storie tese. La prima si deve a un protagonista della scena folk italiana, un virtuoso della chitarra capace di testi insieme poetici e dissacranti, che si pongono sullo stesso filone del teatro canzone di Giorgio Gaber: Stefano Rosso.
Nel 1980 a Sanremo canta “L’italiano”, ironia sociologica di quel che eravamo, e forse siamo ancora, con una costruzione testuale per affastellamento di immagini che ritroveremo anche in “Nuntereggae più” di Rino Gaetano. Rosso racconta gli italiani “Di calcio tecnici d’amor maestri” facili a cambiar bandiera. Ma la domenica, canta, “problemi grossi: segna Giordano o segna Paolo Rossi?”. E questo ci porta al prossimo capitolo dell’antologia.
Eddy Anselmi, autore del libro “Il festival di Sanremo: 70 anni di storie, canzoni, cantanti e serate” (edizioni De Agostini), ha ricordato che sul palco dell’Ariston si sono visti due ex calciatori tra i concorrenti. Christian aveva infatti giocato nelle giovanili del Palermo mentre Francesco Rapetti, il figlio di Mogol, ha indossato le maglie di Ternana e Mantova.
Raramente però i calciatori si sono sentiti nei testi delle canzoni. E’ un fenomeno moderno, che si combina con l’irrompere della realtà nelle parole dei brani. Uno dei casi più eclatanti risale a “Zitti zitti (Il silenzio è d’oro)”, invito all’ascolto con un testo spiazzante e una performance teatrale che include 30 secondi di silenzio degli Aeroplanitaliani.
Si fermano tutti, compresa l’orchestra, per far parlare il silenzio dopo il rumore di parole urlate sul crollo del comunismo, le crisi economiche, le inchieste di Tangentopoli, la P2, Diego Maradona.
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Vent’anni dopo, un altro cantautore dalla poetica densa, contemporanea e inattuale insieme, ha inserito l’erede di Maradona in un testo presentato a Sanremo. Si tratta del bolognese Samuele Bersani che nel 2012 racconta l’Italia attraverso la metafora di un pallone sgonfio sotto un tappeto musicale giocoso in cui c’è spazio per “la noia di un prato all’inglese” e “le scarpe di Messi“. E si passa in un attimo a un asfalto ormai vecchio alla “rabbia calciata” che quel pallone fa volare “più in alto dei santi”.
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Più recenti i folgoranti versi di Achille Lauro in Rolls Royce del 2019. “No, non è un drink, è Paul Gascoigne“, canta, dentro una canzone in cui i sogni di ragazzi di periferia prendono corpo solo attraverso i cliché della subcultura di massa. Sogni d’apparenza e di luci che nascondono pugni presi e nessuno mai resi. Perché sognare resta sempre più facile che guardare in faccia la realtà.
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