Vlahovic alla Juventus segna un altro capitolo nella storia di questo sport: assegnare la scorta a un atleta “colpevole” di scegliere.
Vlahovic alla Juventus fa discutere, ma il principale argomento di conversazione non dovrebbe essere di natura economica, né tantomeno in ambito sentimentale. Anche se gli addii fanno sempre male. Bisognerebbe piuttosto riflettere sul prezzo di certe scelte, che non sempre è quantificabile in denaro.
La trattativa del serbo ha coinvolto tante persone e altrettanti tifosi che hanno risposto con amarezza. Reazione comprensibile, un po’ meno giustificabili sono gli striscioni – esclusivamente quelli di matrice razzista e minatoria – che sono apparsi al centro d’allenamento della Fiorentina.
Che i saluti di Vlahovic non siano andati giù a una parte del tifo viola è normale, ciò che è assurdo sono le reazioni. Volendo evitare la retorica spicciola rispetto al fatto che “nella vita conta ben altro”, il punto è proprio più diretto. Anche se il tifo – come è giusto che sia – possa ricoprire gran parte della routine, non deve sfociare in aggressioni o minacce.
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Altrimenti diventa odio, che con il supporto c’entra poco. Nel momento in cui – come riporta Repubblica – all’interno del calcio entrano termini come “scorta”, “protezione” e “sicurezza” vuol dire che si è passato un limite. Una linea di confine che deve essere ben marcata a prescindere da colori, situazioni e risvolti. Un uomo – qualsiasi uomo, in quanto essere umano – non può vivere nella paura solo per aver fatto il proprio lavoro che implica (anche) delle scelte.
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Un giocatore che arriva scortato al centro d’allenamento comunica che non può essere sicuro per la propria incolumità: segnale della resa incondizionata dei diritti civili. Davanti a questo crolla tutta la retorica sull’interesse, il Fair Play e la disciplina. Il problema non è solo dialettico, ma diventa strutturale: un campanello d’allarme che dovrebbe far riflettere tutti. Dove stiamo andando? Per cosa ci stiamo battendo? È questo il calcio che vogliamo?
Qui non c’entra (soltanto) l’economia, è una questione di approccio: la passione non si fomenta con la violenza. La visceralità deve essere un ingrediente assolutamente presente che deve, però, andare di pari passo con la responsabilità. I calciatori – per quanto riesce difficile crederlo – sono lavoratori esattamente come chiunque altro. Magari più privilegiati, ma non è la prima volta che determinati mestieri vengono considerati più remunerativi di altri.
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Quello che non deve cambiare è il concetto di sicurezza sul lavoro e nel quotidiano: l’Italia è già un Paese che, per altri motivi, combatte con questa piaga sociale. Giovani, anziani, muoiono sul lavoro per mancati controlli nella noncuranza collettiva. Se questo pressappochismo arriva anche nel calcio – che dovrebbe essere la “zona franca” in cui, almeno chi guarda, deve poter conservare una certa serenità – vuol dire che è davvero finita. Cessa di esistere ogni ordine costituito.
Se un calciatore deve girare scortato come un pentito o colpevole di chissà quale reato solo per aver scelto altri colori, decisione che (come si evince dagli striscioni) potrebbe costargli cara, allora vuol dire che non esiste più alcun freno. Occorre che qualcuno lo metta, che chi di dovere torni a dire quanto questo non sia solo un gioco ma espressione di una società civile. Nel caso ce lo fossimo dimenticato.
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