Un anno fa moriva il grande giornalista Gianni Mura, che cantava gli uomini dello sport e non gradiva troppo la tecnologia
Un anno fa, moriva Gianni Mura. Era molto più di un giornalista sportivo, di una prima firma di Repubblica. Scriveva come viveva, un po’ disparte seppur al centro dell’attenzione, col gusto per la memoria senza vizio per la nostalgia, con una prosa densa ma di sostanza come un buon rosso d’annata.
Cantava gli uomini, non i campioni, Gianni Mura, ricordato a un anno dalla morte con uno speciale in onda su Sky. Il suo calcio era quello di Gigi Riva, esattamente come il suo ciclismo, la sua prima passione umana e professionale, non viveva delle imprese di Anquetil o di Merckx.
Preferiva i gregari ai cannibali, i leader che portavano l’esempio agli urlatori e ai cascatori di professione. Ammirava Di Bartolomei e Scirea, usciva a cena con Sandro Mazzola e Fabio Capello. Perché allora tra i giornalisti e i calciatori o gli allenatori si creavano simpatie e parentesi di convivialità.
Era un perfezionista, andava in profondità per capire il gioco e tirar fuori l’umanità dei protagonisti. Non è mai stato d’accordo con chi ha misconosciuto la virtù antica del contropiede, con chi lo nomina con diffidenza quasi sia diventato un modo del vincere non del tutto legittimo.
Eppure col tempo riuscì ad apprezzare anche il Milan di Sacchi, il verbo più innovativo della storia moderna dell’Italia calcistica. “Mura sapeva riconoscere il merito. Una volta in Coppa Italia schierai i giovani e giocammo benissimo. Lui lo riconobbe” ha ricordato Sacchi nell’omaggio al giornalista nel giorno della scomparsa.
Era un Milan-Lazio del 1988, i rossoneri vinsero 2-1 in Coppa Italia con una squadra di ragazzi perché gli olandesi i big azzurri erano a Seoul per le Olimpiadi. “Se anche loro fanno lo stesso gioco dei grandi, allora è tutto giusto” scrisse Mura.
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Il calcio di Gianni Mura avrebbe dentro grandi bandiere come Pulici al Torino, Baresi e Mazzola, Maldini e Facchetti. Uomini, e non caporali, come Cera, il libero del Cagliari dello scudetto. O come Aldo Serena che lo stupì con i libri di poesia disseminati per casa.
Avrebbe allenatori filosofi alla Manlio Scopigno, fini conoscitori della condizione umana dai valori non scalfibili come Enzo Bearzot, il ct dell’Italia campione del mondo nel 1982 contro tutto e tutti. L’uomo che volle fortissimamente il “suo” Paolo Rossi appena tornato dopo due anni di squalifica, e si giocò tutto lasciando a casa Roberto Pruzzo capocannoniere della Serie A.
Non avrebbe la tecnologia, almeno non nella forma attuale del VAR. La accettava, raccontava in un’intervista al Corriere dello Sport, per risolvere la questione del gol-non gol. Per tutto il resto preferiva il fascino del calcio originario.
Il perfezionismo può anche uccidere, diventare “accanimento terapeutico”, marchiava così i fuorigioco fischiati per la punta della scarpa o la spalla oltre la linea.
Era per il mistero senza fine bello, non per la logica industriale. Fedele agli uomini e non alle macchine, alla sapienza antica e non al linguaggio per iniziati. Insomma, pro Allegri e non pro Adani, nella diatriba che ha diviso gli appassionati del calcio alla tv nelle ultime stagioni.
In fondo, nel calcio di Gianni Mura c’era la ragione della sua passione per lo sport. Una dimensione del vivere in cui bisogna essere, e non basta solo sembrare.
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