Maradona, il mito arriva in sala. La vita del compianto fuoriclasse è stata anche un ottimo spunto per tanti registi e amanti del cinema. Chi è riuscito a raccontare meglio l’uomo e il mito dell’argentino in questi anni. I titoli più iconici e le opere più discusse.
Maradona, una vita di talento ed eccessi. Genio e sregolatezza: passione e fedeltà. Attaccamento viscerale a uno sport divenuta la sua meta. Il suo obiettivo. L’isola felice nonostante le cadute, i problemi e la dipendenza. Un’esistenza simile, fatta di lunghe salite e discese ripide, può strizzare l’occhio al cinema.
Il rapporto fra Dieguito e la Settima Arte, infatti, è sempre stato di amore e odio: affetto sincero, quello che lo accumunava a Massimo Troisi, anch’egli personaggio iconico che ha saputo fare del proprio lavoro una passione e filosofia da seguire, con cui aveva un rapporto di assoluta stima. Sdegno più totale, invece, per chi voleva cercare di raccontarlo banalmente o di usarne l’immagine in maniera distorta.
Raccontare le paturnie di un campione non è mai facile, ancor più se quel campione si chiama Maradona e volendo il film avrebbe potuto farselo da solo: non per questione di soldi ma perché la sua vita, nel bene e nel male, è sempre stata uno spettacolo. Ogni istantanea dell’uomo prima e del giocatore poi è intrisa di audacia, irriverenza e sentimento. Aspetti che, dall’altra parte della macchina da presa, hanno provato a carpire in maniera diversa.
Fra le opere più dibattute in Italia ci fu, senza dubbio alcuno, “La mano de Dios” diretto da Marco Risi. L’opera risale al 2007 e passa in rassegna le tappe più significative del Mito: dalle origini all’ascesa, qualcuno della critica non digerì alcune ricostruzioni riguardanti il profilo più controverso del fuoriclasse. Una serie di particolari che, secondo l’opinione pubblica, avrebbero demonizzato eccessivamente un uomo che avendo vissuto (anche) di eccessi sapeva prendersi le proprie responsabilità.
L’interprete principale di quell’opera è Marco Leonardi che, all’epoca del film, venne scelto per interpretare Diego: “Ho avuto l’impressione di avere a che fare con un trascinatore – ha dichiarato – una sorta di Peter Pan addolorato che nelle proprie fragilità è comunque riuscito ad essere un esempio per tutti. Sono smarrito all’idea di averlo perso per sempre”.
Proprio una parte di quelle fragilità, che viene difficile raccontare in un film, è possibile ritrovarle – con maggiore accuratezza e garbo – in alcuni documentari che hanno scandito il vissuto dell’argentino con la stessa delicatezza di una carezza nel caos. Emir Kusturica, con “Maradona”, arriva nelle sale un anno più tardi rispetto a Risi e fornisce uno spaccato di vita del Diez che si articola fra Buenos Aires, Napoli e Cuba.
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Centrali, in quel progetto, sono i parallelismi fra tre diversi punti geografici che convergono in un solo centro nevralgico: la quotidianità del talento argentino che si approccia ad ogni giorno come se dovesse essere l’ultimo. Toccante il focus sul rapporto con Fidel Castro e le relative critiche al sistema imperialista e neo-liberista nordamericano. In tal senso anche Asif Kapadia ha fatto un ottimo lavoro, fra ricerca e pathos, con il docu-film dal titolo “Diego Maradona” (2019).
Tornando al cinema di genere, impossibile non citare Paolo Sorrentino che “La grande Bellezza” l’ha sempre vista attraverso gli occhi di Dieguito: il rapporto fra i due è sempre stato altalenante. Sono arrivate le congratulazioni da parte di Maradona dopo la vittoria agli Oscar del regista nel 2014 (anche grazie a un discorso che il celebre direttore ha tenuto al momento della premiazione in cui ha menzionato el Diez più volte), ma poi i contatti si sono un po’ raffreddati per via di incomprensioni reciproche in merito a uno degli ultimi lavori del regista napoletano.
Sorrentino, fra l’altro, lo inserisce in “Youth” – citandolo ripetutamente – e in altri suoi lavori più attuali relativi alla serialità: i mordaci progetti “The Young Pope” e “The New Pope” vedono l’utilizzo di numerosi espedienti (retorici e non) per menzionare Maradona e il Napoli degli anni Ottanta.
Veniamo, infine, a quella pletora di opere che non volevano raccontare Maradona, ma porre l’accento su un gap generazionale e un’emancipazione giovanile anche attraverso la figura iconica del centravanti: “Santa Maradona” (2001) di Marco Ponti – ispirato dal titolo della celebre canzone dei Mano Negra – resta sicuramente uno dei tentativi più pregevoli in tal senso.
Se la celebrità di Maradona (nonostante tutto) non si è mai scalfita, è anche grazie all’apporto della Settima Arte che, talvolta persino indirettamente, ha contribuito a tenere le luci accese su un concentrato di carisma e sagacia – in grado addirittura di ammaliare – perennemente incantato dalle sorprese della vita. Al punto da viverla tutta d’un fiato, senza tirarsi mai indietro. Aspettando, per così dire, il prossimo ciak.
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