In quattro anni con Pep Guardiola, il Manchester City è uscito una volta negli ottavi e tre nei quarti in Champions League. Le responsabilità del tecnico
Senza Messi, Pep Guardiola non è mai arrivato in finale di Champions League. Al Manchester City, dall’estate del 2016, gli sceicchi hanno investito 778 milioni per rinforzare una rosa sempre fermata prima delle semifinali. Un’eliminazione negli ottavi e tre nei quarti il bilancio di Guardiola al City. Sconfitte che si aggiungono alle tre perse da allenatore del Bayern Monaco.
“I dettagli hanno fatto la differenza”, ha detto dopo la partita, “in una competizione come questa non puoi permetterti di commettere errori”. Giusto, e la mente va immediatamente a Sterling “in versione Gagliardini”, e allo scontro fra Laporte e Dembelé che poi si sarebbe involato verso la porta segnando il gol del 2-1 del Lione. Ma ci sono anche quelli di Guardiola, da mettere in conto, come spiega Barney Ronay sul Guardian.
Per un’ora, il City ondeggia come frenato, con Kevin De Bruyne, forse il principale talento creativo della Premier League, defilato e senza spazio per esaltare quel talento a beneficio della squadra. “Perché fare tutto questo? Perché succhiar via gioia e libertà quando sarebbero servite di più” si chiede. “I giocatori devono essersi sentiti come i musicisti di una band che, invitati a suonare il loro singolo da numero 1, all’ultimo decidono di eseguire un’odissea jazz da dieci minuti”.
Per un’ora, non c’è traccia dell’espressività corale del Manchester City e del calcio di Guardiola, ma un pestar di percussioni, una successione di assoli senza particolare coerenza. La difesa a tre, scelta per rispondere al 3-5-2 con cui Garcia ha cambiato il Lione nella seconda parte di stagione, ha perplesso tanti e convinto nessuno.
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Certo, come spesso capita di fronte alle sconfitte inattese di chi ha assunto, anche non per sua volontà, un’aura da profeta del pallone, le critiche di fronte alle cadute si fanno più dure. Guardiola non è un sopravvalutato, non è un allenatore che ha vinto solo con Messi, Xavi e Iniesta. Anche se quei tre hanno aiutato, indubbiamente. Ma c’è un motivo se non in tutte le stagioni in cui hanno giocato insieme, il Barcellona ha dominato in Spagna e in Europa.
Però, e non per la prima volta, dà a volte l’impressione di faticare a liberarsi dall’impasto di razionalità e principio di insicurezza in fondo all’anima che lo portano a scavare, analizzare, cercare di prevedere l’imprevedibile. Per dirla con Samuele Bersani, il suo approccio al calcio rischia di essere troppo cerebrale per capire che si può star bene senza complicare il bene. Non facile, per chi da sempre ha più affinità con i giudizi universali.
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