Andrea Pirlo è il più giovane allenatore della Juventus dai tempi di Carlo Ancelotti nel 1999. E’ la dimostrazione che l’identità di squadra è sempre più ricercata nel calcio delle appartenenze liquide
La scelta di Andrea Pirlo, promosso in meno di due settimane da allenatore dell’Under 23 a tecnico della prima squadra, è una scommessa che molto rivela. E’ la seconda consecutiva dopo la fusione a freddo di fatto mai riuscita con Maurizio Sarri. Una rivoluzione solo sulla carta, probabilmente non da tutti convintamente abbracciata né dai calciatori né dai dirigenti, come farebbe pensare tra le righe la lettura delle dichiarazioni di Agnelli e Paratici post esonero.
L’intervallo quasi nullo fra l’annuncio dell’esonero e l’ufficializzazione della sostituzione fanno pensare che il divorzio fosse stato pensato da prima, la sconfitta di Lione avrebbe accelerato l’inevitabile. Ma il nome di Pirlo, più giovane allenatore della Juve dai tempi di Carlo Ancelotti nel 1999, è un discorso un po’ diverso.
Probabilmente, il suo rientro per l’under 23 avrebbe dovuto essere una transizione verso la prima squadra. Come lo è stato guidare il Barcellona B per Pep Guardiola, come lo è stato allenare per oltre un anno il Castilla, la squadra satellite del Real Madrid, per Zizou Zidane.
Invece Pirlo, considerato un allievo particolarmente brillante al corso per il patentino UEFA, vivrà il battesimo del fuoco direttamente in prima squadra. E’ la dimostrazione che l’allenatore nel calcio ancora conta, non tanto e non solo per la visione di calcio che porta (spoiler: nessuna considerazione su quella che la Gazzetta dello Sport ha già ribattezzato “Pirlolandia”).
Sarri alla Juve si è trasformata in una versione più lunga, e perlomeno coronata dello scudetto, del “Maledetto United”. Ovvero i 44 giorni di Brian Clough sulla panchina della squadra che più gli era stata ostile, il Leeds United di Don Revie. Allora, all’inizio degli anni Settanta, Clough inseguiva un calcio tecnico ed elegante. Il Leeds invece rappresentava il meglio e il peggio del calcio britannico: una squadra vincente sì, con giocatore di carattere, personalità ma anche con una cattiveria ai limiti dell’anti-sportività.
Tra Sarri e la Juve, più dell’antica questione dell’estetica e della sostanza che ha segnato la contrapposizione tra il suo Napoli e i bianconeri di Allegri, ha pesato una distanza di metodo, un’assenza di comunicazione, un’incompatibilità tra l’idea di calcio e il ruolo di Cristiano Ronaldo. E Pirlo erediterà una rosa più “sarriana” di quella di quest’anno.
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Non aveva le parole giuste per farsi ascoltare, Sarri. E se è questo il vulnus centrale della stagione, si spiega la scelta di un allenatore nuovo che non ha ancora esperienza ma le parole per farsi ascoltare da una squadra come la Juve sì. Perché tutti lo rispettano, perché chi è in campo appartiene a generazioni che Pirlo l’hanno visto e magari l’hanno anche affrontato. E tutti, compagni, avversari e appassionati, gli riconoscono un valore, gli attribuiscono rispetto. Facile che si sia più disposti ad ascoltare un interlocutore così, ad accettarne le idee e le visioni.
Pirlo è entrato nella Juve e di fatto non ne è più davvero uscito, il feeling con il presidente Andrea Agnelli è documentato. La sua immagine è come una volée di Edberg, come una virgola di poesia ma senza eccessi, senza effervescenze. Bresciano sì, ma “sabaudo” come Marchisio, torinese doc con cui ha formato il centrocampo della prima Juve del ciclo Conte.
Ecco, Conte. Il suo primo anno all’Inter offre la contro-copertina. Anche lui, pur secondo a un punto dalla Juventus, non ha trovato quella corrispondenza di calcistici sensi nella squadra come nella prima esperienza in bianconero o in nazionale.
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Se le due migliori squadre d’Italia hanno sofferto per questa incompatibilità squadra-allenatore, e le migliori in Europa hanno scelto tecnici che ne rappresentano in maniera lampante l’identità e la cultura, un motivo ci sarà. I risultati possono pagare o meno, ma le squadre nei quarti di Champions hanno scelto allenatori che per esperienze pregresse da calciatore o nello staff, oppure per tratti caratteriali, rappresentano l’inafferrabile “identità del club”.
La rassegna è presto fatta. Il Bayern Monaco ha promosso Flick dalla seconda squadra, il Barcellona ha voluto il “guardiolista” Setién nonostante la squadra non fosse del tutto d’accordo. Di Real Madrid e Manchester City abbiamo detto. E quanto detto vale anche per l’Atalanta che si specchia in Gasperini, per il Lipsia con Nagelsmann e il “progetto Red Bull”, per l’Atletico Madrid più “cholista” che mai con Simeone, tra huevos e visione del calcio come riscatto e rivincita.
Non è tanto una questione tattica, dunque, ma di identificazione del brand. Il calcio, come i canali televisivi o i marchi d’abbigliamento, vive di concorrenza, di moltiplicazione delle opportunità, di identità liquide. Gli sponsor tecnici sono simili, le maglie tendono ad avvicinarsi spesso per stile e ad abbandonare certi dettami identificativi, vedi la maglia a quadri del Barcellona.
Cambiano i gusti e cambiano i tifosi. Oggi la Juve o il Real Madrid, il Manchester United o il Bayern, oltre alla base di sostenitori locali hanno veri e propri clienti nel mondo, quegli appassionati che vivono in Asia o in Africa, dove le partite della Premier League sono vissute con lo stesso trasporto di un Clasico al Camp Nou. E allora, in un mondo in cui tutto tende ad assomigliarsi, distinguersi con un’identità chiara diventa una priorità. Non solo per il campo.
E’ una scelta per molti versi commerciale, non solo tecnica. La Juve si sta sempre più muovendo come una multinazionale del pallone, che attraverso lo stile in campo e i trofei punta a colmare il gap in Europa. Ma dipende ancora troppo dalle plusvalenze, un altro aspetto su cui lavorare per completare la rivoluzione.
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