Juventus. Maurizio Sarri ha vinto il suo primo scudetto a 61 anni. La stagione del tecnico toscano, la trasformazione da “Comandante”, le future scelte della società
Si può assaporare una prima volta anche a sessantun anni. Maurizio Sarri ha centrato il suo primo grande traguardo italiano. Tornato con un’accresciuta credibilità internazionale dopo aver portato il Chelsea alla conquista dell’Europa League nonostante i calciatori che criticavano i suoi metodi e una parte della tifoseria ostile, Sarri si è trovato alla Juve nel guado di un cambiamento difficile.
Ha percorso le acque agitate della sua prima stagione in bianconero e ha superato Nils Liedholm. A 61 anni, è diventato il più anziano allenatore a conquistare uno scudetto in Serie A. Ma non è stata la stagione spartiacque che molti avrebbero sperato, e forse altrettanti hanno temuto, quando la scorsa estate la società ha annunciato l’accordo con Sarri.
La dirigenza della Juventus ha chiuso il rapporto con Massimiliano Allegri, colpevole soprattutto di aver sbagliato l’approccio delle partite decisive nella fase a eliminazione diretta della scorsa Champions League. E di non aver trovato una proficua via per far convivere Dybala e Cristiano Ronaldo.
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Il nuovo stile di Sarri
Sarri, con fama di allenatore per certi versi proletario e spigoloso, circondato dalla diffidenza con cui si accolgono i parvenu saliti troppo in fretta al ballo di gala, avrebbe dovuto portare la sua versione di calcio, una visione considerata più in linea con quel che più paga oggi in Europa.
Ma la Juventus, una delle società in cui la cultura del club ancora orienta stili, comportamenti e interpretazioni del calcio, ha preparato la rivoluzione senza portarla fino in fondo. Sarri ha abbandonato la tuta acetata ma per una maglia a manica corta o lunga, non per la giacca e la cravatta. Ha vinto 16 delle prime 17 partite in casa come solo Carlo Parola nella storia dei tecnici bianconeri, ha superato facilmente il girone di Champions ma non è andato al di là della contraddizione di fondo.
Ha accettato di mettere il suo calcio codificato e il 4-3-3 del Napoli, in cui era diventato con eccesso di retorica il comandante che sognava di prendere il palazzo, parzialmente in soffitta. Di mantenere cioè i principi guida del controllo del campo e del pallone e della difesa in avanti dentro una squadra che ha faticato a seguirlo con fiducia e convinzione.
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Juventus e Sarri, l’incontro ancora incompleto
La società ha presentato Sarri come un cambio di paradigma, e senza dubbio lo era rispetto a Max Allegri, anche al di là della stucchevole contrapposizione che li voleva epigoni del bello e dell’utile. Il cambio di paradigma ha preso il via senza grandi differenze rispetto al passato nelle strategie di formazione della rosa. E questo pur nella consapevolezza che un calcio in teoria più semplice nelle istruzioni individuali richiede una ricerca più complessa, perché gli interpreti migliori devono possedere caratteristiche molto precise. Caratteristiche che, ad esempio, in ruoli chiave non possiedono Rabiot, Ramsey o Bernardeschi.
In questo sta la mancata rivoluzione, lo scudetto vinto anche per indebolimento delle avversarie. Sarri ha cambiato qualcosa del suo approccio, rimasto però integralista nei principi, soprattutto tattici. La ricerca dell’aggressione e la difesa in avanti richiedono una squadra convinto e soprattutto corta. L’incertezza allunga tempi e reparti, espone al contropiede (Fofana a Udine è solo l’ultimo ad aver beneficiato di questo crescente disequilibrio).
La società ha comunicato un desiderio di cambio radicale trasformandolo però in un maquillage e poco più. La volontà di assecondare un gusto estetico contemporaneo per ravvivare lo stantio slogan per cui vincere alla Juventus “è l’unica cosa che conta” ha un’evidente, innegabile appeal commerciale. Le ultime scelte anche di mercato dei bianconeri, CR7 su tutti, dimostrano il tentativo di pensarsi come una grande azienda, da multinazionale. E l’espansione di un brand come la Juve passa per il successo europeo.
Passa soprattutto per un cambiamento di cultura che deve coinvolgere tutti i livelli, se si decide di puntare su Sarri anche per il futuro. Un successo in qualche modo simbolico di un calcio che i cambiamenti li ammira ma a distanza, ancora diffidente verso il nuovo. Soprattutto se arriva dall’estero o porta una visione delle cose molto diversa, come dimostra la conclusione della vicenda Rangnick al Milan. Sarri è cambiato, la Juventus e la Serie A non ancora.
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