Avviciniamoci a Roma-Inter con due prodezze simbolo di genio e talento che hanno segnato le sfide. Riviviamo la rovesciata di Djorkaeff del 1997 e il cucchiaio di Totti del 2005
Realizzare un arco, piegare la solidità della pietra in un esercizio di libera elasticità. Dare alla materia la forma della libertà che ascende, si piega alla volontà, traduce l’arditezza di pensiero in bellezza da ripetere. L’arco racconta tanto l’architettura romana quanto il senso delle sfide tra Roma e Inter, incastonate nel ricordo di due archi da leggenda, due parabole di genio e improvvisazione, due sfide alla gravità. Basta il nome per evocarle: Youri Djorkaeff e Francesco Totti.
Prima scena, 5 gennaio 1997, San Siro. L’Inter, in vantaggio 1-0, continua ad attaccare. Ore 15.09, Maurizio Ganz tira, il portiere della Roma Giorgio Sterchele respinge, il difensore Fabio Petruzzi ne alza una, di parabola, verso la linea di fondo. È il preludio improbabile a un gol impossibile. Verso il limite dell’area piccola, la palla scende e Djorkaeff sale, si stende nell’aria a due metri di altezza e colpisce.
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Rovescia verso la porta mentre il tempo si ferma. Chi è in area, complici e gregari della sua temerarietà, osservano il risultato di quella scintillante bellezza, coordinazione mista a velocità di pensiero e volontà di precisione. Palla sotto l’incrocio. Stupore, meraviglia, chapeau. Quel gol cancella tutto, il risultato, il 3-1 dell’Inter, gli altri 89 minuti più recupero. Si prende un applauso che dura un paio di minuti per quello che Peppino Prisco definirà “il gol più bello che abbia mai visto”.
Perfino l’arbitro, Graziano Cesari, gli chiede la maglia a fine partita. “Gli ho detto che sarebbe stato per un’altra volta. Questa voglio tenermela io – gli avrebbe risposto, come racconta a fine partita -. Non ricordo altri miei gol così belli“. La rovesciata è un preciso, codificato, esercizio di stile.
I tifosi dell’Inter ne ricordano un’altra affine, con la palla colpita a un’altezza apparentemente irraggiungibile per un gesto atletico in cui si lievita a tesa in giù. La segnò Karl Heinz Rummenigge ai Glasgow Rangers in Coppa Uefa nel 1984: l’arbitro lo annullò per gioco pericoloso.
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In un momento, illuminando il colore del vento, Djorkaeff palesa le ragioni che hanno spinto Massimo Moratti, presidente con una visione emozionale del gioco e della squadra, ad acquistarlo per un’illuminazione, per l’intuizione di un talento non comune mentre lo guardava in tv. Stava guidando il PSG alla vittoria in Coppa delle Coppe in finale contro il Rapid Vienna.
In quel 1997, i Greenday avrebbero pubblicato una ballad lontana dal loro stile punk, Basket Case. “Il tempo ti afferra e ti porta dove vuole, non è una domanda ma una lezione da imparare in tempo” cantano. “È imprevedibile, ma alla fine è giusto. Spero tu abbia avuto il tempo di vivere al massimo ogni attimo”. Djorkaeff, in quell’attimo e non solo, quel tempo l’ha avuto. “Quel gol non vale solo il prezzo del biglietto, ma dell’intero abbonamento” ha detto Enrico Ruggeri. E la foto del franco-armeno che si eleva e impatta con l’elegante e ferma coordinazione di un tuffatore in avvitamento, verrà stampata su tutte le tessere dei tifosi dell’Inter la stagione successiva.
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In campo, quel giorno, la Roma litigiosa allineava Marco Delvecchio e Francesco Totti, poi nella ripresa sarebbe entrato anche Abel Balbo che avrebbe accusato il presidente Franco Sensi di non aver rinforzato la squadra.
Undici anni dopo, nel 2005, Totti è di nuovo in campo a San Siro. Roma si specchia nella nostalgia del suo “Romanzo criminale”, racconto della Banda della Magliana attraverso lo sguardo di Michele Placido. Totti è ormai ben oltre la linea d’ombra. Ha sposato Ilary Blasi in diretta tv, ma il legame da paradigma velina-calciatore nel loro caso dura di più delle storie da due copertine e via. Il capitano della Roma è solido e leggero insieme, come gli archi che dipinge in campo.
Nel gergo dei tifosi di calcio assume una definizione più casalinga e gastronomica. Lo chiamano “cucchiaio”, come se servisse a raccogliere e sollevare, a tenere insieme e non a dividere. Agli italiani è familiare quello d’argento, di cucchiaio. Era un libro di ricette praticamente immancabile nelle cucine, con Van Gogh intento a mangiare fagioli in copertina, poi sarebbe stato sostituito dalle ricerche sui siti e dagli appunti presi durante Masterchef.
A San Siro, il 26 ottobre 2005, Totti è alla prova del fuoco. Col “cucchiaio” ha chiuso un 5-1 in un derby contro la Lazio e beffato Van der Sar nella semifinale da romanzo contro l’Olanda, che esercitava ancora il fascino di efficienza totale di Cruijff e non la diffidenza da nazione “frugale” in Europa.
Prove generali del cucchiaio giottesco al brasiliano Julio Cesar. Totti parte da centrocampo, vince un rimpallo, finta verso l’interno, vede il portiere fuori dai pali e dal limite ci prova. Ma nelle sue guerre stellari, come al cinema, non esiste provare, esiste fare o non fare. E Totti fa. Julio Cesar si arrotola mentre il pallone gli sfugge, vicino e irraggiungibile. “E’ uno dei miei gol più belli” ha detto Totti a fine carriera. “E’ il più bello che abbia mai subito” ha ammesso Julio Cesar. Perfino suo figlio, rivedendolo su Youtube, ne è rimasto impressionato. L’arco in fondo serve a unire due punti lontani.
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