Una carriera lunga 47 anni quella di Corrado Orrico. Il tecnico di Massa, famoso per il gioco a zona delle sue squadre, non è riuscito ad imporsi nell’Inter del presidente Pellegrini
Una carriera contrassegnata dai successi su diverse panchine di Serie C e dal grande rimpianto di non aver sfondato in A. Soprattutto resta il rammarico del fallimento all’Inter. Di questo, dell’emergenza Coronavirus e della sua idea di calcio, ha parlato in ESCLUSIVA a CalcioToday.it Corrado Orrico
Come sta vivendo un ottantenne questa emergenza?
“Ho tanti acciacchi di natura traumatica, ma fondamentalmente sto bene. Per quanto riguarda il Coronavirus, per evitare rischi bisogna assolutamente restare a casa. Il contagio avviene tramite contatto”.
Ripercorrendo la sua lunga carriera, qual è la prima cosa che le viene in mente?
“La soddisfazione di aver anticipato un certo tipo di calcio. Già 30 anni fa le mie squadre giocavano come molte di quelle attuali. Per esempio l’Atalanta è come la mia Carrarrese , che ho allenato per tredici stagioni in sette diverse occasioni, a partire dal 1969”.
Quindi lei si rivede in Gasperini?
“Sì. In sostanza nelle sue squadre non ci sono ruoli rigidamente definiti, Gasperini fa una miscela. Tutto questo a vantaggio del collettivo. Per l’avversario è molto difficile affrontare l’Atalanta proprio per questo motivo”.
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Nel ’91 il presidente dell’Inter Pellegrini la ingaggiò per sostituire Trapattoni e di fatto per rispondere al Milan di Sacchi. Al termine del girone d’andata lei rassegnò le dimissioni. E’ questo il suo grande rimpianto?
“Sì. I giocatori erano molto legati al gioco di Trapattoni. Io non sono riuscito ad imporre le mie idee, quelle di un calcio a tutto campo. Non aveva senso per me restare in una squadra in cui non potevo ottimizzare il mio lavoro”.
Non crede che sia stata una decisione affrettata?
“No, se le cose vanno male, l’allenatore deve andare via, io non trovo normale che alcuni tecnici aspettino l’esonero. Con l’Inter è stato il fallimento delle mie idee. Il presidente Pellegrini fece di tutto per farmi tornare indietro rispetto alla mia decisione”.
A proposito di idee, lei resta famoso per la “gabbia”. In cosa consisteva?
“Durante gli allenamenti, era una maniera di spezzettare la squadra e ogni reparto metterlo in una sorta di gabbia, in condizioni di grande difficoltà. All’interno di questo spazio, i giocatori erano costretto a difendersi e ad attaccare, quindi imparavano più ruoli. Il pallone non usciva mai da questa gabbia. L’ha capita solo chi ha lavorato con me”.
Il calcio si avvia a ripartire. Cosa ne pensa?
“A porte chiuse viene fuori un mostro che non ha nulla a che vedere con il calcio, i tifosi sono la parte più affettuosa. Non vorrei che ci fossero rischi, ma mancano una ventina di giorni, vediamo. Però, ripeto, senza pubblico il calcio diventa la parodia di se stesso”.
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