Uno per tutti, tutti per uno. In una crisi sanitaria e di sistema come la pandemia da coronavirus, l’antico motto dei moschettieri di Francia è una direzione di percorso. Ci si salva solo con la cooperazione. Vale, naturalmente, anche per il calcio, un’industria che genera oltre tre miliardi all’anno. Vittorio Turinetti di Priero e Ranieri Romani, soci dello studio milanese LCA che nel 2019 ha assistito il fondo di LionRock Capital nell’ingresso nel capitale sociale dell’Inter, che abbiamo raggiunto al telefono, sottolineano l’impatto della scelta della Juve di tagliare per prima gli stipendi. E promuovono la creazione di un fondo di solidarietà.
Il ruolo guida della Juve
Dal punto di vista dei giocatori, spiega Romani, giuslavorista esperto nelle questioni che derivano dalle crisi aziendali, l’aspetto centrale è la riduzione degli ingaggi, che avrebbe un peso decisamente maggiore se il campionato non dovesse riprendere.
“La Juventus si è mossa per prima, ha dato l’esempio. Il blocco delle attività riduce anche le entrate della società. Ora, la Juve ha una forza economica per cui può dare garanzie ai tesserati e tagliare gli stipendi prima delle altre in Serie A”. Anche nel caso in cui l’accordo individuale con i calciatori si dovesse tradurre in un differimento del pagamento degli ingaggi durante la prossima stagione, dice Romani, “saremmo di fronte a un cambiamento del modello di business, con l’idea di connettere maggiormente gli stipendi agli eventi. Oggi, paradossalmente, sono le società più ricche a rischiare di più in quanto sono anche le più indebitate”.
La Juventus, spiega Turinetti, “ha fatto qualcosa di straordinario dal punto di vista simbolico, imprenditoriale, sportivo. Certo, ha una grande forza contrattuale che può far valere. E i giocatori sanno che le cose non saranno come prima. Per cui la Juve può convincere più facilmente i calciatori. Mettiamoci però nei panni di giocatori in società meno forti. I loro procuratori potrebbero consigliare loro di non accettare riduzioni dello stipendio, mettersi in conflitto con la società e magari liberarsi a parametro zero”. In un calcio moderno in cui non esiste attaccamento alla maglia, ed è una conseguenza del sistema, certi comportamenti non si possono escludere.
L’obbligo di buona fede nei contratti
Non a caso, le leghe stanno spingendo per la conclusione dei campionati e il presidente della UEFA, Ceferin, ha parlato del 3 agosto come data limite per terminare la Champions e l’Europa League. I mancati introiti per i diritti televisivi, l’incertezza sul comportamento degli sponsor, le presumibili richieste di rimborso dei biglietti e degli abbonamenti che i tifosi hanno acquistato per lo stadio diventano fattori di rischio non secondario per l’intero sistema calcio.
E questo apre scenari di incertezza anche sotto l’aspetto dei contratti. Dal punto di vista giuridico, secondo la legge 91 del 23 marzo 1981, il calciatore professionista è un lavoratore subordinato “speciale”, per cui valgono norme parzialmente diverse rispetto a quelle del lavoro dipendente standard. “La forma contrattuale è necessariamente predefinita, e nel contratto che il calciatore firma viene espressamente richiamato il contratto collettivo di lavoro” spiega Romani.
“Quale potrà essere la soluzione? Nel diritto italiano, non esiste un obbligo codificato di equilibrio (o per meglio dire, di ri-equilibrio) del contratto” ha scritto Turinetti in un saggio su Diritto24. “È così definita la cosiddetta alea contrattuale, nell’ambito della quale ciascuno accetta il rischio delle mutate circostanze nel corso del periodo di esecuzione del contratto stesso”. Esiste, però, “un generale obbligo di buona fede nella negoziazione, nell’interpretazione e nell’esecuzione del contratto”.
La Juve e le altre: il rapporto società-calciatori
Lo sport, ci spiega, “non è un mondo a parte, ma riflette la società. Una società in cui c’è un crescente scontro tra diritti”, in cui diritto alla sicurezza e al lavoro finiscono per essere messi, in opposizione, sui due pesi della bilancia. Anche nel calcio.
Romani non crede che si arrivi a un taglio orizzontale su tutti i tesserati, come l’ipotesi di riduzione del 30% degli ingaggi in Premier League che i calciatori hanno rifiutato. “La modifica dei contratti è consensuale” spiega l’avvocato, “e potrebbe esserci sempre qualche giocatore che non accetta la riduzione dell’ingaggio”.
Le società di calcio, nel rapporto con i calciatori, mantengono un potere direttivo e organizzativo. Di fronte alla contrazione dei ricavi dovuta alla crisi sanitaria, potrebbero anche imporre una riduzione dei contratti per eccessiva onerosità sopravvenuta o per impossibilità parziale della prestazione. Ma in questo caso, se le società dovessero percorrere questa strada rischierebbero lunghi contenziosi con i giocatori.
Le problematiche si aggravano quando si scende nelle serie inferiori. In queste categorie, “alcuni calciatori guadagnano meno di un impiegato quadro in azienda” sintetizza Romani. Per questo Figc e Leghe hanno inserito nel pacchetto di richieste al governo anche la possibilità di estendere la cassa integrazione ai calciatori della serie B e C con contratti sotto i 50 mila euro, che rappresentano la maggioranza dei profili. Secondo l’ultimo Report Calcio della FIGC, infatti, due terzi dei calciatori professionisti in Italia guadagna meno di 35 mila euro all’anno.
Se poi ai casi, non esattamente isolati, di pagamenti in ritardo si aggiungono le riduzioni degli ingaggi, le tensioni potrebbero esplodere. E i giocatori potrebbero anche optare per la messa in mora della società, dichiara Romani. “Anche perché, da un lato non c’è la prestazione sportiva. Ma dall’altro i club stanno chiedendo ai calciatori di allenarsi a casa. E dunque, è discutibile che si possa considerare un periodo di ferie. Peraltro, molti calciatori hanno già esaurito in estate e nel periodo natalizio le ferie: potrebbe, in tali casi, trattarsi pertanto di una forzata anticipazione di ferie non ancora maturate. Ma anche questo potrebbe creare contenziosi se non si arriverà a un accordo generale tra le società e i calciatori”.
Diritto al lavoro vs diritto a non essere contagiati
I calciatori di Serie A sono delle star, ma anche loro hanno diritto alla salute.”Infatti, nell’ultimo Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri vengono specificamente vietati gli allenamenti delle squadre” aggiunge.
Tuttavia, prima di una delle ultime partite rimaste in programma prima della sospensione dei campionati, il Cosenza aveva minacciato di multare i due calciatori che si erano rifiutati di partire per Verona, per la trasferta contro il Chievo, temendo di contagiarsi. La partita sarebbe stata poi cancellata. Ma che succederà se qualche calciatore farà lo stesso quando riprenderà il campionato?
“Ci dicono che la ripresa sarà graduale, che dovremo indossare a lungo guanti e mascherine, che però non ci sono. Però pensiamo di chiedere ai giocatori di tornare in campo” riflette Turinetti, “allora cosa conta di più: il diritto al lavoro o il diritto a non restare contagiati?”.
C’è anche un diritto a fare impresa, dichiara Turinetti, che nella fase di emergenza da covid-19 viene inevitabilmente sacrificato. “Ci sono aziende che hanno chiuso spontaneamente, fabbriche o officine che l’hanno fatto non potendo garantire il rispetto della distanza minima di un metro. Se qualcuno si ammala al lavoro e contagia qualcun altro, che tipo di responsabilità ha il datore di lavoro? Il tema, dal punto di vista giuridico non è stato ancora affrontato”.
La proposta: un fondo di solidarietà
I club, dice Romani, dovrebbero puntare a una forma di contratto di solidarietà: togliere qualcosa ai tesserati per garantire i dipendenti non tesserati, che sono circa 1600 nelle sole società di Serie A. Di fatto, è quello che in Spagna hanno accettato di fare i calciatori dell’Atletico Madrid, che si sono tagliati l’ingaggio del 30% per integrare lo stipendio dei 430 dipendenti per cui ha fatto ricorso all’ERTE (Expediente de Regulacion de Empleo Temporal) che prevede riduzione o sospensione della giornata lavorativa per cause di forza maggiore.
Bisogna guardare al futuro, aggiunge Turinetti, “e il calcio si salva solo con la cooperazione”. Tutti, dichiara, possono fare la loro parte. Dallo Stato, anche se provvedimenti come la cassa integrazione per le società di Serie C “sarebbero impopolari perché il calcio è visto come un industria del lusso”, alle società e ai calciatori che possono fare da guida. “Pensiamo a Cristiano Ronaldo. Tanti dicono: è facile rinunciare a 10 milioni quando ne guadagni trenta. Ma non credo che tanti dirigenti d’azienda siano disposti a rinunciare alla stessa percentuale dei loro stipendi”.
I calciatori, dice, “hanno l’occasione di riscattare l’immagine di ‘viziati’. Hanno davanti uno spazio enorme e una grande responsabilità, quella di diventare un modello virtuoso”. E in un certo senso indirizzare, anticipare, le scelte delle istituzioni che potrebbero non essere in grado di incidere nel breve periodo.
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