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Guardiola, tre anni poi la crisi: la gloria è l’inizio della fine

Guardiola, tre anni poi la crisi: la gloria è l’inizio della fine

“Il terzo anno è fatale”. Parola di Bela Guttman, che continuava a spostarsi prima che il disordine o le contromisure degli avversari potessero minare gli equilibri della squadra. È difficile trovare un top club capace di rimanere al vertice per più di tre anni senza cambiamenti di rilievo nella rosa, senza un turnover costante e consistente come dimostra la politica di Sir Alex Ferguson che al Manchester United ha mantenuto un gruppo di calciatori del vivaio intorno a cui ruotava un cast di supporto sempre cangiante. Andava così anche nel Real Madrid che vinse cinque Coppe dei Campioni tra il 1956 e il 1960. In quel periodo l’allenatore cambiò sei volte e solo quattro calciatori in campo nella prima finale c’erano anche nell’ultima.

Il calcio offensivo e la regola dei tre anni

La regola dei tre anni sembra valere particolarmente per le squadre che giocano un calcio veloce con un pressing deciso a tutto campo: la Dinamo Kiev di Viktor Maslov alla fine degli anni Sessanta, l’Ajax del calcio totale che si è sfaldato dopo la terza Coppa dei Campioni di fila, il Milan di Sacchi. Vale anche per le squadre di Pep Guardiola, che sembra ripetere uno stesso ciclo: l’apprendimento, il perfezionamento, il declino. Il suo regno al Barcellona è durato quattro anni, al Bayern Monaco ha resistito per tre, al Manchester United ha iniziato il quarto campionato con la partenza peggiore di tutta la sua storia da allenatore.

Una storia fatta di intuizioni, invenzioni, sperimentazioni, eccessi, errori spalancati con la stessa forza dei numeri che raccontano di una media vicina ai 2,5 punti a partita. Ha allenato in tre campionati diversi, ha adattato la sua visione nella forma ma non l’andamento generale del percorso.

Il quadriennio al Barcellona

“Guardiola analizza gli avversari, poi cerca strategie nuove e migliori per utilizzare le sue risorse (calciatori, posizioni, ruoli) per raggiungere il risultato ottimale” ha scritto il suo biografo Marti Perarnau nel libro Pep Guardiola: The Evolution. “Quel che resta al termine del processo è il prodotto finale”.

Ogni sessione di allenamento, ha detto Gerard Piqué al sito dell’Uefa, è una lezione. A Barcellona, facilitato dall’essere cresciuto nell’epoca della rifondazione culturale del club che con la gestione Cruijff si ridefinisce attraverso lo stile del calcio totale, vince il Triplete al primo anno. Vince 14 trofei in quattro stagioni, comprese tre titoli di fila nella Liga nei primi tre anni e due Champions League.

Bayern da record in Bundesliga, mai in finale in Champions

Al Bayern Monaco, ha dominato la Bundesliga per tre anni consecutivi dal 2014 al 2016. La sua squadra ha vinto 82 partite su 102, una media che nessun altro tecnico ha mai nemmeno avvicinato nella storia del Bayern. In tre stagioni, i bavaresi hanno segnato 254 gol e ne hanno subiti 58, chiudendo con la porta inviolata più della metà degli incontri (59).

Il discorso cambia se si guarda all’Europa, dove non è andato oltre tre semifinali di Champions League, perse contro Real Madrid, Barcellona e Atletico Madrid. Lo 0-4 eclatante contro il Real, partita in cui sarebbero stati sei giocatori a convincere Guardiola di un assetto tattico suicida come ha rivelato Lahm anni dopo, comunque manifesta la sua idea di gestione del gruppo e la sua tendenza a portare all’estremo le scelte tattiche come un tentativo di controllare l’entropia.

Manchester City, l’eccesso di complessità per contrastare il declino

E il Manchester City, la squadra più stabile ad alto livello in Premier League dal 2008, sta seguendo lo stesso percorso. Dopo un primo anno di ambientamento e due campionati vinti con un differente dispendio di energie, con un crescendo di carico emotivo per il duello dell’anno scorso con uno dei tecnici che l’ha sconfitto di più (Jurgen Klopp), il Manchester City si sta perdendo. Non bastano i terzini che salgono a occupare il posto dei mediani, non basta la ricerca di versatilità universale che si incarna nel nuovo ruolo di De Bruyne. Non bastano le invenzioni sempre più ricercate e cerebrali se poi Vincent Kompany non viene sostituito e da difensore centrale si adatta un centrocampista come Fernandinho preferito anche a Otamendi.

Parte della fascinazione che esercita Guardiola, ha scritto Barney Ronay sul Guardian, “è il modo in cui risaltano gli errori di un cesare deluso prigioniero dell’ego e dei suoi principi”. Quanto sta accadendo al Manchester City, soprattutto in fase difensiva, non è solo i risultato di un cambio di paradigma in Premier League, di un ritorno a un calcio più essenziale e verticale.

È la riproposizione, con altre forme, del suo finale a Barcellona. La difesa a tre, con cui i blaugrana hanno battuto 3-1 il Real Madrid nell’ultimo Clasico di Liga al Camp Nou durante la sua gestione, ha smesso di funzionare nei mesi successivi. Guardiola ha complicato eccessivamente le tattiche di gioco, scrive ancora Ronay, preoccupato di portare più uomini sopra la palla, di aggirare le difese compatte.

“Invece di affrontare la prospettiva di vedere la sua filosofia messa in discussione, invece di rischiare le conseguenze di eventi casuali, Guardiola ha cercato di controllare la situazione esagerando quel che aveva reso grande il Barcellona. Ha provato a tenere il possesso più a lungo, di attaccare con ancora più uomini”. Ha fallito con le sue idee, secondo il principio guida suo e di Johann Cruijff prima.

A Barcellona, come a Monaco e a Manchester, la gloria è arrivata come l’inizio della fine.

Leggi anche – Guardiola: “Volevo giocare nella Juve con Zidane”

Alessandro Mastroluca

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Alessandro Mastroluca

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