C’eravamo idealmente tutti, quella sera di due anni fa a San Siro. E quel 13 novembre 2017 difficilmente lo dimenticheremo. La serata passata presto dalla speranza debole alla delusione totale, lo 0-0 con la Svezia che segna l’addio a qualunque sogno di nuovo miracolo azzurro. L’Italia, per la prima volta dal 1958, non si è qualificata ai Mondiali. E ‘la sera del tracollo di Ventura, della sfida forse più palese nella sua gestione sempre più raffazzonata: tiene in panchina Insigne, nonostante il pareggio che non serve e il suggerimento di De Rossi che il ct avrebbe voluto far entrare. Un’Italia triste e finale si aggrappa anche a vane premonizioni, vedi il bacio di Florenzi alla palla prima di uno degli ultimi, inutili, calci d’angolo.
L’Italia individua il colpevole, il ct Ventura, mentre Buffon piange sconsolato e lo stadio si svuota, lasciando il posto a una notte densa di risentimenti e delusioni. Delusioni per gli esperimenti disperati, per Gabbiadini titolare, Florenzi mezzala, Darmian e Candreva sulle fasce.
“Fine” titola la Gazzetta dello Sport il giorno dopo. “Tutti a casa” grida Tuttosport dalla prima pagina. Il Tempo è ancora più diretto: “Andate a lavorare”. Per il quotidiano spagnolo Marca un mondiale senza Italia è “incredibile”. Il tedesco Bild parla di “terremoto”.
Nel novembre 2018, a un anno da quella sconfitta, l’allora presidente della Federcalcio Carlo Tavecchio l’ha definito “il giorno dell’Apocalisse. Quella sera sulla Rai si auspicavano il commissariamento della Federazione, andando a creare un grosso problema politico – ha detto durante ‘Maracanà’ su Radio RMC Sport – Io a quell’epoca mi auspicavo delle dimissioni generali nel Consiglio Federale dopo un fatto così grave come la mancata qualificazione dell’Italia. Dimissioni che non sono arrivate, e allora pensai di dimettermi io”. Ventura, ha aggiunto in quell’occasione, “ha fatto delle scelte sbagliate sui giocatori: Insigne, uno dei giocatori migliori, non è stato schierato in campo e non so il motivo. Avevamo dei giocatori che avrebbero potuto aiutarlo, ma lui non li ha usati”.
L’Italia assiste al trionfo mondiale della Francia, che batte la Croazia e per gran parte del torneo in Russia gioca all’Italiana. A ottobre del 2018, terminato il commissariamento della Federazione, viene eletto il nuovo presidente Gabriele Gravina. Roberto Mancini inaugura il nuovo corso in nazionale, tra amichevoli e la Nations League che serve a sperimentare il blocco nuovo su cui costruire il cammino all’Europeo del 2020.
Si costruisce anche dal basso, con due secondi posti all’Europeo Under 17 (e i quarti al Mondiale in corso), la finale persa all’Europeo Under 19 del 2018, il quarto posto al Mondiale Under 20 della scorsa estate. Qualcosa si muove, Mancini integra la meglio gioventù anche in nazionale maggiore: Castrovilli, Cistana e Orsolini gli ultimi a debuttare in questo raduno prima delle due ultime sfide nelle qualificazioni a Euro 2020. Gli azzurri, già primi e sicuri di esserci nella fase finale, possono concedersi il lusso di sperimentare.
Mancini ha definito un suo stile, ha restituito entusiasmo e identificazione con il modello di calcio della nazionale. In tanti hanno elogiato l’unione del gruppo e la leggerezza che si respira in nazionale.
Il nuovo ct ha raggiunto le 17 panchine con 11 vittorie, 4 pareggi e due sconfitte. Ha eguagliato, numericamente, i nove successi di fila degli azzurri di Pozzo tra 1938 e 1939. Ma va detto che in quella serie rientrava il Mondiale francese del 1938 e sfide contro le migliori squadre di allora. L’Italia di Mancini ha sconfitto Usa, Finlandia (2 volte), Liechtenstein (2), Grecia (2), Bosnia Erzegovina, Armenia. Però è anche vero che le partite van comunque portate a casa.
Gli azzurri, in queste 17 gare, hanno passato 478 minuti in vantaggio e 195’ in svantaggio. L’Italia è tornata a segnare sei gol di scarto, contro il Liechtenstein a marzo, per la prima volta dal 6-0 contro la Turchia del 2 dicembre 1962. Complessivamente, la nazionale di Mancini ha segnato 33 partite con 19 calciatori diversi: Belotti (4 reti); Bernardeschi, Jorginho (3); Barella, Bonucci, Insigne, Kean, Quagliarella e Verratti (2); Balotelli, Biraghi, El Shaarawy, Immobile, Pavoletti, Pellegrini, Politano, Romagnoli, Sensi e Zaza (1).
Mancini, che già studiava da manager all’Inter o al Manchester City, non ha inseguito sistemi tattici complessi da imparare nella sua carriera da tecnico. Ha gestito gli uomini, anche in spogliatoi in cui i caratteri spigolosi non mancavano. La sua storia, il suo percorso internazionale, il potere attrattivo che riesce a esercitare e soprattutto la sua motivazione nell’assumere l’incarico hanno fatto la differenza. E continuano ad essere fattori decisivi. Mancini voleva prendersi da tecnico quelle soddisfazioni in azzurro che gli erano mancate da giocatore.
Ha scelto una strada, ha restituito ai tifosi una nazionale in cui specchiarsi e per cui divertirsi. E’ il tecnico che ha lanciato Balotelli all’Inter e sottolineato l’importanza del settore giovanile del Manchester City. E continua sulla strada dei giovani, anche in azzurro. Anche quando l’azzurro vira sul verde per ragioni di marketing. A due anni da quella sera di ombre e pensieri pesanti a San Siro, l’Italia è sicura di esserci all’Europeo itinerante del 2020 che si aprirà all’Olimpico. E ci saremo di nuovo tutti, con la stessa divisa ma con l’umore di ben altro colore.
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