Segnava per dovere, Gigi Riva. Segnava per rabbia e per amore. La rabbia per la morte del padre, veterano della prima guerra mondiale ucciso da una scheggia in fonderia, della madre che fa andare la filanda ma non lo vede partire per Cagliari: se n’è andata prima. Riva, che oggi compie 75 anni e si gode la bella famiglia, è cresciuto in collegio, fra bambini vecchi obbedienti e ordinati.
Dovrebbe andare all’Inter, la sua squadra del cuore, ma poi non se ne fa niente. “A Leggiuno ho demolito la casa in cui abitavo con i miei e ne ho costruita una nuova. Quando torno al paese sono sommerso dai ricordi ma mi piace rimettere piede al bar, con gli amici di un tempo, che ormai sono diventati tutti dei vecchietti” ricordava nell’intervista di Alberto Costa per il Corriere della Sera nel 2004.
Gigi Riva, orgoglio del Cagliari
Quando parte è un lombardo di lago, chiuso e un po’ arrabbiato. L’hanno mandato in quella Sardegna che allora è soprattutto il posto dove spediscono i carabinieri per punizione: il fascino della Costa Smeralda arriverà molto più in là. Trova tutte le famiglie che non ha mai avuto e, ad ogni trasferta, sente l’abbraccio di migliaia di sardi emigrati in Germania o in Francia. Se è vero che nessun uomo è un isola, Riva lo diventa. È una cosa sola con la Sardegna. E’ Rombodituono, tutto attaccato, soprannome che deve a Gianni Brera, artista e funambolo della parola.
Rifiuta ogni offerta, per orgoglio e gratitudine. “Rimani così finisco di pagare la cucina”, gli chiede Martiradonna. E Riva rimane a Cagliari a far da terminale di una squadra in cui ognuno conosce il suo ruolo. Riva è il bomber, il simbolo ma sa che se senza i cross di Domenghini, la visione di Gori, le intuizioni di Cera o Nené non sarebbe Riva. Non cerca più gloria di quella che il campo gli concede. E niente come il campo ha reso giustizia alla sua naturale, testarda diversità. A quei silenzi intagliati, agli spigoli di un volto e di un fisico fatti apposta per somigliare a una terra orgogliosa di affetti forti che non hanno bisogno di troppe parole.
Si vive di premi partita, e quel Cagliari di partite ne vince tante in quel 4-4-2 molto moderno, visione di quell’allenatore così obliquo rispetto ai tempi come Manlio Scopigno. C’è un episodio che forse lo racconta meglio di tutti. Non è il celebre “dispiace se fumo?” entrando nella stanza in cui un gruppo di giocatori si stava concedendo una partita a carte sotto una cappa grigia da abbondante uso di sigarette. Ma la calma olimpica che ostenta il 15 marzo 1970, a pochi minuti dalla fine di Juventus-Cagliari 2-2, scontro diretto che tiene i sardi un punto avanti ai bianconeri. “Quanto manca?” gli chiede il capitano Cera. “A che cosa?” gli risponde con spiazzante, studiata ingenuità. Un mese dopo il Cagliari festeggia il primo scudetto della sua storia, il successo che per Gianni Brera mette davvero la Sardegna sulla mappa d’Italia.
Il giorno più bello di Riva, lo scudetto del Cagliari
La certezza del titolo matura il 12 aprile 1970. La Gazzetta dello Sport celebra in prima pagina lo scudetto del Cagliari con una foto di Riva che lancia fiori ai tifosi in estasi. Il trionfo dell’Amsicora, lo stadio del Cagliari di allora, si esprime e si riassume nel nuovo campione del calcio italiano. “Augiro a tutti quelli che giocano a calcio di provare una soddisfazione del genere” dice.
Angelo Rovelli, inviato della Gazzetta, racconta dei caroselli che si mischiano alla processione per il sesto centenario della madonna di Bonaria, dell’aria che si riempie dei “Viva Maria” e insieme dei “Cagliari matadore, ti sei vestito di tricolore”. Intanto, uno stralunato turista tedesco teme di essere finito in mezzo a una rivoluzione di piazza.
Riva, che aveva già avviato due anni prima l’unico successo europeo dell’Italia a Roma contro la Jugoslavia, parte per i Mondiali del Messico. Segna nel 4-3 alla Germania, la partita del secolo, che rimane il punto più alto anche della sua storia in azzurro.
Riva, bomber da record in nazionale
Nell’ottobre del 1970 il Cagliari gioca talmente bene a San Siro contro l‘Inter che Mazzola gli chiede di andarci un po’ più piano. Partirà con la nazionale, Riva, ha un appuntamento col destino, con “il boia del Prater” Norbert Hof che gli frattura il perone.
Il Cagliari via via si disgrega, i suoi livelli non sono gli stessi di una volta, anche la nazionale affonda nel Mondiale del 1974 in quell’azzurro tenebra che Giovanni Arpino ha meravigliosamente ritratto come immagine della nazionale e di un’Italia molle, prigioniera di piccole invidie e troppi sogni. Rombo di tuono segnerà contro l’Argentina l’ultimo dei suoi 35 gol in 42 partite in azzurro che ne fanno il miglior bomber azzurro di tutti i tempi.
L’amicizia silenziosa tra Riva e De André
Solo la passione l’ha rimesso in piedi, perché l’inferno esiste solo per chi ne ha paura. Canta così Fabrizio De Andrè in Preghiera in gennaio, canzone che Riva non si stanca mai di ascoltare. L’ha scritta da poco quando un suo compagno di squadra che era stato trasferito a Genova li fa incontrare. Il whisky scioglie i silenzi timidi, De Andrè gli racconta che di notte ascolta i rumori della campagna per trovare l’ispirazione. Anche De Andrè ha chiamato casa la Sardegna. Come Riva, che è diventato uno di casa. “Una volta sono entrato a Seui in casa di una vecchietta. Sul muro, a fianco delle foto dei sui familiari, era appesa anche una mia fotografia. Bellissimo, consideravano anche me uno di famiglia” ha raccontato Riva.
Gigi Riva, che nel 1972 ha sfidato al Sant’Elia il Santos di Pele,ha reso Cagliari e il Cagliari un pezzo di casa per i sardi nel mondo.
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