Prima di prenderlo, il direttore sportivo della Fiorentina, Daniele Pradè, ha chiesto consiglio a David Pizarro. E il Pek ha confermato: Erick Pulgar è l’uomo giusto per la Fiorentina.
E’ più di un mediano: un po’ mezzala, un po’ incontrista, con un passato da difensore centrale, Montella l’ha voluto e per lui ha orchestrato il cambio di modulo e il passaggio a un centrocampo con due mediani e tre giocatori offensivi alle spalle di una prima punta. Pulgar associa, aggrega, facilita il gioco. I viola ne hanno già avuto un assaggio all’esordio in campionato contro il Napoli. Spostava l’asse della manovra, chiamava di prima all’inserimento Lirola, sfruttava i movimenti negli spazi di mezzo di Castrovilli alle spalle di Allan.
La storia calcistica del Cile è piena di mediani difensivi grintosi, “cattivi”. Il primo fu Ramón Unzaga, spagnolo di nascita e inventore della rovesciata. In Sudamerica, la chiamano ancora “cilena”. Poi arrivò Dubò, simbolo emotivo e tattico della nazionale terza ai Mondiali di casa del 1962. Una nazione costantemente a confronto con la precarietà, per conformazione del territorio, sospesa sulle Ande e su una delle faglie più pericolose della Terra, abituata ai terremoti e alle ricostruzioni, ha bisogno di certezze, punti fermi a cui reggersi. Sarà per questo che il ruolo di centrocampista centrale conserva una tradizione e un valore carismatico, rassicurante. Negli ultimi anni, i modelli cambiano, si fanno più tecnici, lo stesso Pizarro, e dinamici, come Arturo Vidal, che non a caso è l’ispirazione di Pulgar insieme a Busquets.
Eppure all’Antofagasta, il club della sua città, la “Perla del Nord”, ha iniziato da difensore centrale. Attraversa il settore giovanile, lasciando segni chiari di qualità e versatilità in divenire. Ma insieme comunica un’apparenza di stanchezza, uno sguardo strano che gli allenatori non capiscono. L’aiuto di un amico di famiglia svela un segreto da non dire: i soldi non bastano, a volte non mangia per giorni. L’Antofagasta non è nemmeno un club generoso con i ragazzi delle giovanili, anzi.
Entra in prima squadra nel 2011 e tre anni dopo il suo orizzonte si allarga. Arriva la chiamata di una delle squadre più rinomate della nazione, l’Universidad Catolica, che investe poco meno di 500mila euro per il 70% del cartellino. Sulla sua testa però pende l’ombra di un pericolo, una macchia che potrebbe rovinare tutto.
Il 15 gennaio del 2013, infatti, giorno del suo 19mo compleanno, è stato formalmente accusato di omicidio colposo. Aveva investito Daniel Ampuero Carvajal, un uomo di 66 anni. Guidava senza patente, che gli viene sospesa per un anno. Ha sofferto molto in quel periodo, ma è tornato ad allenarsi subito. E’ un ragazzo cresciuto troppo in fretta, che ripaga l’Universidad per la fiducia con sette gol in 34 partite.
Bologna, coi suoi orchestrali e i turisti internazionali, lo accoglie, ne risana le ferite. In quattro stagioni, si rende indispensabile. Gioca 106 partite, segna 10 gol. Copre tutti i ruoli, supporta la fase di copertura, distribuisce in media oltre 2 passaggi chiave a partita nell’ultima stagione con il Bologna di Mihajlovic, di cui replica in campo l’approccio insieme freddo e guerresco. Gli regala la doppietta, la prima in Serie A, nella sfida salvezza contro il Chievo. Non sbaglia mai dal dischetto nella scorsa stagione. Nemmeno in nazionale. C’è anche la sua firma nella serie di rigori che promuove la Roja in semifinale di Copa America dopo il quarto di finale con la Colombia. Il “Pek” ha trovato un erede.
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